“Ci siamo passati tutti” — di accademia, salute mentale e normalizzazione del disagio

narraction
4 min readNov 8, 2020

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Quando ho iniziato a cercare studi e articoli sulla salute mentale in dottorato e in accademia in generale, mi ha colpita subito l’enorme disparità tra le fonti disponibili in italiano e in inglese.

Non è certamente strano, dal momento che chiunque voglia intraprendere una carriera accademica oggi deve conoscere bene l’inglese — ma non è detto che solo chi lo vive in prima persona possa voler sapere quale sia lo stato della salute mentale di chi fa ricerca.

E dunque, eccoci qui: nelle prossime righe, vi proporrò un piccolo elenco ragionato di fonti sul tema. Non posso evitare di citare, in partenza, l’editoriale di Nature, qui nella sua veste divulgativa, seguito allo studio del 2018 — che più di tutti ha acceso i riflettori sul tema. Lo studio, pubblicato nel 2018 su Nature Biotech, ad opera di Teresa Evans e colleghi, ha coinvolto 2279 studenti di dottorato in 26 paesi. Evans e colleghi hanno trovato che, tra i partecipanti allo studio, più del 40% riportavano livelli medio-gravi di ansia e circa il 40% livelli medio-gravi di depressione. Lo trovate qui sotto.

Non se ne parla di certo solo dal 2018: anzi, lo studio di Evans e colleghi prende le mosse da un questionario pubblicato proprio da Nature nell’anno precedente precedente, compilato da 5700 studenti di dottorato. In quell’occasione, il 12% dei partecipanti aveva specificato di aver dovuto cercare aiuto per ansia o depressione specificamente causata dal dottorato stesso. Trovate l’editoriale che ne presenta i risultati qui sotto.

Prima di allora, e su scala minore (ma solo geograficamente parlando), uno studio fiammingo pubblicato sempre nel 2017 aveva provato a confrontare la salute mentale dei dottorandi con quella di tre gruppi di controllo caratterizzati da alti livelli di istruzione, ma composti di persone che non facessero ricerca (popolazione generale, impiegati, ancora studenti). Hanno partecipato 3659 dottorandi, che, secondo le analisi svolte, mostrerebbero il doppio del rischio di soffrire di problemi psichiatrici comuni (come ormai immaginerete, soprattutto ansia e depressione) rispetto al campione di controllo — e che un terzo di loro li aveva già avuti o era altamente a rischio. Ve lo lascio qui.

Quali siano i motivi di questo quadro poco confortante, che questi studi in parte analizzano, è immaginabile. Il report annuale sullo stati di salute dei dottorandi della California-Berkeley del 2014 suggerisce che il predittore più significativo della salute mentale dei dottorandi fossero le prospettive di carriera (gli studenti che si mostravano più fiduciosi sulle proprie prospettive risultavano generalmente più felici e meno depressi secondo le scale da loro utilizzate). E le prospettive di carriera, in un momento in cui ci sono molti più dottorandi e molte meno tenure-tracks, non sono certo rosee (pare che ad oggi solo lo 0.5–16% dei dottori di ricerca diventi professore, rispetto al 41% del 1980 — al riguardo, potete curiosare qui).

Come per tutte le situazioni già problematiche, poi, la pandemia e il conseguente lockdown non ha fatto che amplificare il problema: la risposta dell’accademia alla pandemia è stata un generico aumento del carico di lavoro di scrittura e di reinvenzione dei progetti che il lockdown ha, inevitabilmente, stravolto.

Ma non è solo questo, il problema. Il vero problema è come tutto questo sia normalizzato. Nel mio piccolo, da studentessa di dottorato, mi sono trovata diverse volte ad ammettere di aver pensato di mollare. Le risposte che ho ricevuto variavano dal “ci siamo passati tutti” al “ma no, ormai sei a metà” (come se la metà di 3 o 4 anni non fossero 1 anno e mezzo o 2), al “vedrai che ce la fai”, anche da persone che soffrivano a loro volta di attacchi di panico o depressione — ma non vedevano alternative al portare il dottorato a termine.

Tra sindrome dell’impostore, un equilibrio spesso precario tra vita e lavoro (che il lockdown ha ulteriormente schiacciato), precariato, la legge non scritta del publish or perish, pubblica di continuo o non sopravviverai, e percezione distorta del mondo del lavoro al di fuori dell’università (comunemente definito “alt-ac”, perché appunto, è un’alternativa alla strada maestra dell’accademia)… non stupiscono queste sensazioni e questi numeri.

Se qualche dottorando potenzialmente in crisi è arrivato fino a qui, consiglio (oltre a seguire @ph.diaries_podcast su Instagram) di dare un’occhiata agli hashtag #AcademicMentalHealth e #AcademicChatter. Per sentirsi, quantomeno, meno soli.

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Written by narraction

Linguista, Dottoranda di ricerca in Scienze Cognitive, comunicatrice della scienza in erba, ostetrica delle narrazioni.

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